Michele deve morire

Parafrasando il titolo di un filmaccio semicontemporaneo, Michele deve morire.

Michele Giordano, al secolo Michael Jordan, non ha bisogno di presentazioni: lo puoi chiamare MJ, MJ23, Mike The Strike, Air Jordan e non ti chiedi il perchè di quel nomignolo, lo sai già.

C'è qualcosa, però, sul conto di Michele, che è ben poco noto: ha dato il via ad una serie di comandamenti che nel mondo dell'NBA ha scatenato una faida religiosa, persino successiva al suo ritiro, nota come le Le regole di Giordano ( Jordan Rules ) .

Era il 1988, e i Detroit Pistons, col nomigliolo di "Bad Boys", squadrà di per se fisica e combattiva ( e se annoveri John Salley e Dennis Rodman nella tua line-up non puoi non guadagnarti una certa reputazione ) si videro stampare in fronte da Chuck Daly una serie di precetti ( tecnici, eh: si parla di come affrontare Michele quando penetra dal fondo, senza palla o in transizione ) atti a contrastare la potenza di fuoco della guardia ex Tar-Heels.

Tra le squadre di windy e motor city nacque una rivalità estremamente alta, frutto, perlopiù, delle scaramucce che i Pistons accentuavano incontrando Chicago: un pò come vedere, sempre in quegli anni, un quintetto di irlandesi affrontarne uno losangelino: una tragedia.

Phil Jackson, allora coach dei Bulls, dopo essersi rotto i denti per 3 anni consecutivi ( 88, 89 e 90 ) in quel di Auburn Hills decise che l'attacco a triangolo potesse essere una soluzione ottimale per le Jordan Rules, "inventando", de facto, il gameplay che avrebbe contraddistinto prima i Bulls poi i Lakers ( sempre guidati da coach Zen ).

Nel 91, quindi, i Bulls riuscirono ad affossare la compagine di Daly, con un perentorio sweep.

Ma la memoria di Chuck e del suo stile, votato alla violenza gratuita ma astuta, è perdurato negli anni: l'hack-a-shaq ne è solo il più illustre esempio.